Ho conosciuto il dottor Breuer in un lussuoso Caffè di Venezia, mentre attendeva impaziente la tanto sfacciata quanto giovane Lou Salomè, mangiando una gustosa veneziana. L’ho osservato pulirsi la folta barba dalle briciole incastrate tra i peli rossi e ispidi, con l’aria interrogativa e leggermente scocciata di chi non sa perché ha accettato un invito poco gradito. Leggendo le prime pagine del romanzo, ho sentito il profumo del caffè che il dottore stava sorseggiando, il brusio di sottofondo dei clienti italiani e il tintinnio dei cucchiaini che urtano le tazzine. Ho simpatizzato immediatamente con Joseph Breuer, noto medico diagnosta della Vienna di fine ‘800: un ricco ebreo di quarant’anni, abituato alla vita agiata e di lusso, amato da una moglie paziente e bellissima, Mathilde, che gli ha donato più di un figlio. Condivide una sincera e profonda amicizia col suo giovane allievo Sigmund Freud, medico pieno di idee tanto innovative quanto apparentemente bizzarre, al quale spesso Joseph racconta la trama dei sogni che lo accompagnano la notte. Conduce un’esistenza abbastanza monotona, può godere della stima di tutta la città e, a ben vedere, di tutta Europa. Tuttavia, soffre di una strana malattia, che gli impedisce di godere dei doni che la vita gli ha fatto. Ha diversi sintomi, quali insonnia, sensazione di compressione del torace, sudori freddi, momenti in cui gli manca il respiro, tachicardia e pensieri suicidi. Si potrebbe dire che soffra di una malattia esistenziale, forse la più comune tra gli esseri umani, abitualmente chiamata angoscia.
Lou Salomè è una splendida e brillante ventunenne, da poco affacciatasi all’età adulta, ma, nonostante ciò, notevolmente spigliata nel modo di parlare e di atteggiarsi. È la tipica donna estremamente sicura di sé, per nulla titubante, cosciente della sua abilità di controllare la mente altrui e abituata ad ottenere sempre ciò che brama, incapace di accettare un no. L’incontro della giovane studentessa russa e del quarantenne medico viennese è la messa in moto della nascita di un’amicizia sincera. Un’amicizia che ha come protagonisti Breuer e il geniale professor Nietzsche.
Non si può non ammettere che la storia sia abbastanza piatta: non ci sono colpi di scena, gli ambienti in cui sono collocati i personaggi sono quasi sempre gli stessi e non accadono eventi particolarmente significativi. Il romanzo si poggia principalmente su dialoghi, dialoghi che intendono scavare nel profondo dei due interlocutori per poter trovare la terapia per quella malattia fino ad ora incurabile che è l’angoscia. Viene gettato così il seme della psicoterapia, scienza che prenderà il volo solo successivamente e che Breuer chiama inizialmente “terapia dell’angoscia”. Gli incontri tra il dottore e il filosofo avvengono negli ultimi mesi del 1882, terminando poco prima di Natale. Dal punto di vista storico, è plausibile che i due si siano incontrati, avendo vissuto entrambi nella seconda metà dell’Ottocento, ed è pure probabile che il professor Nietzsche, viste le tremende emicranie di cui soffriva, si sia fatto visitare dal dottore Breuer, data la sua fama di ottimo medico. Tuttavia, è certo che la nascita della psicoterapia non risalga a incontri di questo tipo; tale fatto non è che pura invenzione dell’autore, lo psichiatra e psicoterapeuta di stampo esistenzialista Irvin Yalom.
Seguendo i profondi dialoghi dei due protagonisti, sono rimasta particolarmente colpita dall’abilità dell’autore di descrivere in modo semplice e chiaro diversi fenomeni psichici senza il ricorso a una specifica terminologia clinica. Un fenomeno trasversale in tutto il romanzo, per esempio, che colpisce sia Breuer che il filosofo, è quello della fissazione per una donna e il suo successivo sgretolamento. È interessante l’analisi che ne fa il professor Nietzsche, il quale ha la brillante intuizione di intravedere nell’ossessione per una persona numerosi altri legami interpersonali che caricano di significato il rapporto principale. Il che significa che all’interno di un rapporto apparentemente biunivoco coesistono altre persone, persone che hanno caratterizzato in modo decisivo il passato e che riescono ad avere nel presente un’influenza sui rapporti interpersonali. Breuer scoprirà così che la sua ossessione per una sua paziente è solo la punta di un iceberg molto profondo, che nasconde un passato di ferite e questioni irrisolte.
È ammirabile il tentativo di Yalom di mettere in scena un’amicizia tra due giganti della storia più recente, ma, devo ammettere, non ho apprezzato altrettanto l’esito di tale tentativo. Mi spiego. Il dottor Breuer appare come un personaggio ben delineato, con una mente brillante e palesemente umano, nonostante le sue notevoli abilità in ambito medico. Ha un cuore buono, sete di verità e brama di felicità. È anche un uomo profondamente angosciato e imprigionato tra le sbarre che si è costruito nei suoi ultimi trent’anni. Apparentemente è un personaggio per il quale sarebbe facile provare empatia e compassione; tuttavia, devo ammettere di non essermi affezionata a lui. Mi è capitato di voler bene al protagonista di un romanzo; mi viene in mente, tra gli ultimi che ho letto, il giovane e ingenuo Arturo, creatura ideata dal talento di Elsa Morante. Al termine della lettura, ricordo di aver provato la sensazione di aver accompagnato per lungo tempo il ragazzo, di essermi affezionata alla sua storia e di aver avuto a cuore il suo destino. Insomma, quando ci si affeziona a un personaggio si scalpita per sapere “come va a finire”, perché si spera fino alla fine nella sua salvezza. Sono consapevole che L’isola di Arturo non abbia nulla di che spartire con Le lacrime di Nietzsche; tuttavia, mi servo di tale confronto per spiegare la mia delusione nello scoprirmi poco interessata alla fine della storia, come se non fossi, più di tanto, incuriosita dalla sorte del povero dottor Breuer.
Posso dire lo stesso per Friedrich Nietzsche. In questo caso diventa piuttosto palese la finzione che sta sotto l’intero romanzo. Insomma, è come se si riuscisse a distinguere nettamente dall’attore che è in scena la maschera che indossa. Il personaggio di Nietzsche immagino sia stato estremamente difficile da costruire, motivo per cui alle volte appare quasi come una caricatura, come un’esagerazione di alcune sue peculiarità. Proprio questa palese finzione mi ha impedito di affezionarmi al personaggio, la cui testardaggine o il cui orgoglio mi hanno infastidita non di rado.
Nonostante la poca passione per i personaggi – in particolare, lo ripeto, per il filosofo – ho trovato il libro piuttosto stimolante e facilmente leggibile, soprattutto per quanto riguarda le prime duecento pagine. È illuminato molto spesso da lampi di genio dell’autore, che mette in bocca ai suoi personaggi domande intelligenti e decisive e osservazioni interessanti che sono spunto di numerevoli riflessioni. Ne consiglio sicuramente la lettura.