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Le lacrime di Nietzsche – di Irvin Yalom

Ho conosciuto il dottor Breuer in un lussuoso Caffè di Venezia, mentre attendeva impaziente la tanto sfacciata quanto giovane Lou Salomè, mangiando una gustosa veneziana. L’ho osservato pulirsi la folta barba dalle briciole incastrate tra i peli rossi e ispidi, con l’aria interrogativa e leggermente scocciata di chi non sa perché ha accettato un invito poco gradito. Leggendo le prime pagine del romanzo, ho sentito il profumo del caffè che il dottore stava sorseggiando, il brusio di sottofondo dei clienti italiani e il tintinnio dei cucchiaini che urtano le tazzine. Ho simpatizzato immediatamente con Joseph Breuer, noto medico diagnosta della Vienna di fine ‘800: un ricco ebreo di quarant’anni, abituato alla vita agiata e di lusso, amato da una moglie paziente e bellissima, Mathilde, che gli ha donato più di un figlio. Condivide una sincera e profonda amicizia col suo giovane allievo Sigmund Freud, medico pieno di idee tanto innovative quanto apparentemente bizzarre, al quale spesso Joseph racconta la trama dei sogni che lo accompagnano la notte. Conduce un’esistenza abbastanza monotona, può godere della stima di tutta la città e, a ben vedere, di tutta Europa. Tuttavia, soffre di una strana malattia, che gli impedisce di godere dei doni che la vita gli ha fatto. Ha diversi sintomi, quali insonnia, sensazione di compressione del torace, sudori freddi, momenti in cui gli manca il respiro, tachicardia e pensieri suicidi. Si potrebbe dire che soffra di una malattia esistenziale, forse la più comune tra gli esseri umani, abitualmente chiamata angoscia.

Lou Salomè è una splendida e brillante ventunenne, da poco affacciatasi all’età adulta, ma, nonostante ciò, notevolmente spigliata nel modo di parlare e di atteggiarsi. È la tipica donna estremamente sicura di sé, per nulla titubante, cosciente della sua abilità di controllare la mente altrui e abituata ad ottenere sempre ciò che brama, incapace di accettare un no. L’incontro della giovane studentessa russa e del quarantenne medico viennese è la messa in moto della nascita di un’amicizia sincera. Un’amicizia che ha come protagonisti Breuer e il geniale professor Nietzsche.

Non si può non ammettere che la storia sia abbastanza piatta: non ci sono colpi di scena, gli ambienti in cui sono collocati i personaggi sono quasi sempre gli stessi e non accadono eventi particolarmente significativi. Il romanzo si poggia principalmente su dialoghi, dialoghi che intendono scavare nel profondo dei due interlocutori per poter trovare la terapia per quella malattia fino ad ora incurabile che è l’angoscia. Viene gettato così il seme della psicoterapia, scienza che prenderà il volo solo successivamente e che Breuer chiama inizialmente “terapia dell’angoscia”. Gli incontri tra il dottore e il filosofo avvengono negli ultimi mesi del 1882, terminando poco prima di Natale. Dal punto di vista storico, è plausibile che i due si siano incontrati, avendo vissuto entrambi nella seconda metà dell’Ottocento, ed è pure probabile che il professor Nietzsche, viste le tremende emicranie di cui soffriva, si sia fatto visitare dal dottore Breuer, data la sua fama di ottimo medico. Tuttavia, è certo che la nascita della psicoterapia non risalga a incontri di questo tipo; tale fatto non è che pura invenzione dell’autore, lo psichiatra e psicoterapeuta di stampo esistenzialista Irvin Yalom.

Seguendo i profondi dialoghi dei due protagonisti, sono rimasta particolarmente colpita dall’abilità dell’autore di descrivere in modo semplice e chiaro diversi fenomeni psichici senza il ricorso a una specifica terminologia clinica. Un fenomeno trasversale in tutto il romanzo, per esempio, che colpisce sia Breuer che il filosofo, è quello della fissazione per una donna e il suo successivo sgretolamento. È interessante l’analisi che ne fa il professor Nietzsche, il quale ha la brillante intuizione di intravedere nell’ossessione per una persona numerosi altri legami interpersonali che caricano di significato il rapporto principale. Il che significa che all’interno di un rapporto apparentemente biunivoco coesistono altre persone, persone che hanno caratterizzato in modo decisivo il passato e che riescono ad avere nel presente un’influenza sui rapporti interpersonali. Breuer scoprirà così che la sua ossessione per una sua paziente è solo la punta di un iceberg molto profondo, che nasconde un passato di ferite e questioni irrisolte.

È ammirabile il tentativo di Yalom di mettere in scena un’amicizia tra due giganti della storia più recente, ma, devo ammettere, non ho apprezzato altrettanto l’esito di tale tentativo. Mi spiego. Il dottor Breuer appare come un personaggio ben delineato, con una mente brillante e palesemente umano, nonostante le sue notevoli abilità in ambito medico. Ha un cuore buono, sete di verità e brama di felicità. È anche un uomo profondamente angosciato e imprigionato tra le sbarre che si è costruito nei suoi ultimi trent’anni. Apparentemente è un personaggio per il quale sarebbe facile provare empatia e compassione; tuttavia, devo ammettere di non essermi affezionata a lui. Mi è capitato di voler bene al protagonista di un romanzo; mi viene in mente, tra gli ultimi che ho letto, il giovane e ingenuo Arturo, creatura ideata dal talento di Elsa Morante. Al termine della lettura, ricordo di aver provato la sensazione di aver accompagnato per lungo tempo il ragazzo, di essermi affezionata alla sua storia e di aver avuto a cuore il suo destino. Insomma, quando ci si affeziona a un personaggio si scalpita per sapere “come va a finire”, perché si spera fino alla fine nella sua salvezza. Sono consapevole che L’isola di Arturo non abbia nulla di che spartire con Le lacrime di Nietzsche; tuttavia, mi servo di tale confronto per spiegare la mia delusione nello scoprirmi poco interessata alla fine della storia, come se non fossi, più di tanto, incuriosita dalla sorte del povero dottor Breuer.

Posso dire lo stesso per Friedrich Nietzsche. In questo caso diventa piuttosto palese la finzione che sta sotto l’intero romanzo. Insomma, è come se si riuscisse a distinguere nettamente dall’attore che è in scena la maschera che indossa. Il personaggio di Nietzsche immagino sia stato estremamente difficile da costruire, motivo per cui alle volte appare quasi come una caricatura, come un’esagerazione di alcune sue peculiarità. Proprio questa palese finzione mi ha impedito di affezionarmi al personaggio, la cui testardaggine o il cui orgoglio mi hanno infastidita non di rado.

Nonostante la poca passione per i personaggi – in particolare, lo ripeto, per il filosofo – ho trovato il libro piuttosto stimolante e facilmente leggibile, soprattutto per quanto riguarda le prime duecento pagine. È illuminato molto spesso da lampi di genio dell’autore, che mette in bocca ai suoi personaggi domande intelligenti e decisive e osservazioni interessanti che sono spunto di numerevoli riflessioni. Ne consiglio sicuramente la lettura.

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L’educazione ha bisogno degli insegnanti?

Il seguente articolo è stato scritto per il sito de Il Superuovo


Spiacevoli eventi di cronaca, che vedono protagonisti genitori e studenti impegnati in atti di violenza contro alcuni professori, invitano a riflettere sull’importanza del ruolo che l’insegnante ricopre nella crescita e nell’educazione dei giovani. Uno sguardo al pensiero degli Stoici e di Agostino può aiutare a recuperare la stima nei confronti di un lavoro troppo spesso sottovalutato.

 

“Ai miei tempi se tornavi a casa con una nota oltre allo scappellotto del maestro ti beccavi anche quello del papà”. Già, ai tuoi tempi. Ai nostri tempi lo scappellotto se lo becca l’insegnante, nei migliore dei casi. Nei casi peggiori, può ricevere pugni e calci o addirittura essere ferito da un’arma da taglio.

Diverse tra le scuole italiane di questo inizio 2018 sono state teatro di atti di violenza nei confronti dei professori. Il 10 gennaio a Siracusa due genitori, dopo esser stati contattati dal figlio dodicenne telefonicamente, hanno raggiunto la scuola per malmenare il professore di educazione fisica. Il 27 gennaio, invece, veniva caricato un video che ritrae uno studente di una scuola superiore di Como che inveisce contro il professore, reo di avergli danneggiato il cellulare nel tentativo di toglierglielo dopo innumerevoli richiami. Il video, che circola ancora su internet, permette di assistere alla violenza verbale del ragazzo, rivoltosi al professore con bestemmie, parolacce e insulti. Febbraio non è stato da meno. A Caserta un ragazzo ha ferito al volto la professoressa che intendeva interrogarlo e, poco tempo dopo, a Piacenza un ragazzino di prima media (quindi, per intenderci, un ragazzino che l’anno scorso frequentava la quinta elementare) ha picchiato ripetutamente al braccio l’insegnante. Ed è di pochi giorni la notizia proveniente da Foggia, nella cui città un genitore ha raggiunto la scuola del figlio per menare con calci e pugni il vicepreside che il giorno prima aveva trattenuto per un braccio il ragazzino, con l’intento di impedirgli di continuare a spingere i compagni sulle scale.

Episodi di questo genere non sono da leggere singolarmente e separatamente, ma invitano ad una riflessione più ampia riguardo alla crisi del ruolo che l’insegnante ricopre nell’educazione dei giovani.

La scuola sta conoscendo una diffusa tendenza ad un’iperprotezione dei propri figli, che sfocia, molto spesso, nel rivestire il ruolo di ‘sindacalisti’ o ‘avvocati difensori’ dei ragazzi. Saper accettare il limite e le sconfitte dei propri rampolli diventa sempre più difficile per genitori che vedono proprio quei rampolli come la loro personale occasione di riscossa e realizzazione, come la loro unica e possibile fonte di soddisfazioni. Insomma, accettare la difficoltà del figlio, per molti genitori, significa accettare un ostacolo per il proprio appagamento. Si sa, poi, che “Ogni scarafaggio è bello a mamma sua”. Ma quando il piccolo scarafaggio insulta l’insegnante, il problema, per la madre, dovrebbe essere educarlo al rispetto, piuttosto che scendere in campo orgogliosamente e a tutti i costi in difesa del figlio. Esistono, purtroppo, episodi in cui addirittura il genitore ricorre alla violenza fisica sull’insegnante, mosso da una rabbia incontrollabile. Gli accadimenti riportati non contemplavano un confronto maturo e pacifico tra genitori in cerca di spiegazioni e insegnanti disposti a fornirle; l’unica fonte ascoltata è sempre stata il figlio, motivo più che sufficiente per raggiungere la scuola e percuotere l’insegnante irrispettoso che ha osato toccare un bambino indifeso. Il problema, insomma, è prevalere. Prevalere sull’unica figura che sembra minacciare la singolarità dell’autorità genitoriale. “Il bambino è mio e solo io posso avere un potere decisionale su di lui; tu, insegnante, devi solo trasmettere informazioni”.

Sfortunatamente per i più di settecentomila insegnanti italiani, la figura del docente è sempre meno stimata e, di conseguenza, sempre meno rispettata. Accade molto spesso, per esempio, che genitori, solitamente di media o elevata cultura, si permettano di criticare, giudicare e correggere gli insegnanti, cosa che avviene il più delle volte agli occhi dei figli. Anche in questo caso, il problema è prevalere.

Fin dall’antichità l’educazione ha riscosso non poco interesse tra i pensatori, consapevoli di quanto una buona educazione sia fondamentale per la crescita e la realizzazione della persona. Nella concezione degli Stoici, ad esempio, la Natura genera individui integri e liberi, che, a causa della società e di un’educazione sbagliata, diventano corrotti. Alla nascita la mente degli individui è completamente vergine, come un foglio di carta bianco, nella quale si imprimono le rappresentazioni sensibile, elaborate poi per alimentare il patrimonio concettuale. Solo al settimo anno di età la ragione permea tutta la mente e l’individuo diventa totalmente razionale; i primi sette anni, dunque, sono fondamentali per la formazione di quella perfezione morale a cui mira l’educazione. Una figura estremamente importante, infatti, è rappresentata dalla nutrice, che deve essere saggia e abile nell’esprimersi. Le doti naturali, che caratterizzano solo alcuni individui, non sono sufficienti per raggiungere l’ideale del saggio, modello di orientamento per la vita degli stoici. Ovvero, le predisposizioni naturali non bastano per raggiungere la felicità, ma sono semplicemente la causa sinergica della crescita, a cui è necessario affiancare una causa preliminare, che permette di avviare l’educazione, rappresentata dal padre, e una causa completa, che porti a compimento il processo, rappresentata dal maestro. Ciò che è necessario per raggiungere la perfezione morale e essere felici, insomma, è un’ottima educazione e la buona attitudine ad apprendere è una virtù più nobile dell’intelligenza.

Agostino d’Ippona

In ambito cristiano viene sottolineata l’importanza dell’educazione come via d’accesso alla conoscenza della verità. In particolare, Agostino (354-430), nel suo De Magistro, legge la figura del maestro come colui che aiuta gli alunni a conoscere la verità. Essendo la verità nel cuore dell’uomo, l’insegnante guida socraticamente l’alunno alla conoscenza della verità, educandolo, cioè ‘conducendo fuori’ ciò che egli riserba internamente. La prova della validità di un insegnamento è data dal trasferimento, da parte dell’alunno, di quanto appreso in un ambito iniziale in un diverso ambito ancora non noto. Qualsiasi nozione infatti secondo il pensatore per essere pienamente appresa deve essere trovata e percepita come vera dagli studenti.

In entrambi i casi, il maestro ricopre un ruolo fondamentale per la crescita e l’educazione dei giovani. Non è minimamente messa in discussione la sua importanza e la sua unicità, seppur diverse da quelle che rivestono il genitore. Il maestro sa qualcosa che il genitore probabilmente non conosce e affianca nel percorso della conoscenza i giovani; giovani che però sono già stati avviati all’incontro col sapere dai genitori, i quali mantengono saldo l’impianto educativo su cui si poggia il ragazzo, senza il quale la scuola e lo studio perdono di significato. Sarebbe bello rendersi conto che gli spiacevoli eventi di questo inizio d’anno non avessero seguito e che si continuasse a concepire la scuola come un’ottima alleata per la crescita e la realizzazione delle persone, fatta di insegnanti che condividono con i genitori un progetto educativo che si interessi essenzialmente dello studente.

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L’edonismo come spiegazione della violenza

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Leggere fatti di cronaca che trasudano violenza è diventato, ormai, la quotidianità. La violenza è utilizzata sempre come strumento per il perseguimento del proprio scopo, del proprio vantaggio. Secondo l’edonismo egoistico, per l’uomo è inevitabile perseguire la propria utilità e atti disinteressati, in realtà, celano sempre un proprio interesse. Se è inevitabile comportarsi in maniera egoistica, perchè biasimiamo chi commette atti violenti?

La cronaca è quotidianamente costellata di fatti di violenza atroce. L’ultimo caso, avvenuto a Milano, vede protagonista Alessandro Garlaschi, trentanovenne dipendente dell’Azienda dei Trasporti Milanese. Quest’ultimo avrebbe ucciso la giovane Jessica di 19 anni con una decina di coltellate, in seguito a quello che si suppone sia stato un suo rifiuto alle attenzioni dell’uomo. Jessica viveva nella casa di Alessandro e della moglie da poco tempo, e ripagava l’ospitalità sbrigando le faccende domestiche. Purtroppo omicidi di questa natura non sono gli unici atti di violenza conosciuti dal nostro Paese.

La violenza fisica nasce spesso da moventi di natura sessuale

Il vocabolario Treccani ci può aiutare a comprendere meglio cosa sia la violenza, definendola come la tendenza abituale a usare la forza fisica in modo brutale o irrazionale, facendo anche ricorso a mezzi di offesa, al fine di imporre la propria volontà e di costringere alla sottomissione, coartando la volontà altrui sia di azione sia di pensiero e di espressione. Ci serviamo della violenza, dunque, affinché il nostro volere, il nostro obiettivo, il nostro scopo, il nostro vantaggio prevalgano. D’altronde, esiste una concezione filosofica che, riconoscendo come unico scopo dell’agire umano il perseguimento del proprio piacere, spiega per quale motivo la violenza sembra uno strumento necessario in alcuni casi. Stiamo parlando dell’edonismo psicologico egoistico, che concepisce il fine dell’agire dell’uomo solo in chiave del proprio vantaggio in termini di piacere. Si ricorre alla violenza, dunque, nel momento in cui esiste un ostacolo al perseguimento del nostro vantaggio e, vista la nostra natura egoistica, pretendiamo di raggiungere il nostro scopo a qualunque costo, recando addirittura dolore fisico e psicologico o, nei casi estremi, eliminando direttamente ciò che ci è di intralcio.

Secondo la prospettiva antropologica edonista, non esistono atti pienamente disinteressati, nemmeno nel caso in cui l’agire è mosso dalla simpatia e dalla benevolenza. Jeremy Bentham (1738-1842), capostipite dell’utilitarismo, fondava l’etica proprio sulla considerazione edonista dell’uomo e fronteggiava la critica di chi sostiene l’esistenza di atti disinteressati servendosi di una domanda retorica: “Ma il piacere che io sento alla prospettiva di procurare il piacere al mio amico è il piacere di chi, se non di me stesso?”. Dunque, da questo punto di vista non esistono atti che, nel momento in cui sono intenzionati, escludono dal proprio scopo l’interesse personale per far spazio all’interesse di un’altra persona. Anche le azioni di generosità e benevolenza muovono dal desiderio di provare piacere di fronte al piacere procurato ad un altro.

Il Principio dell’Utilità (PDU) guida la morale della persona che agisce, approvando e disapprovando tutti i tipi d’azione in base alla tendenza che queste hanno ad aumentare o a diminuire il piacere della soggetto agente. Dunque, da un punto di vista morale, non ci sarebbe motivo per evitare di compiere un’azione vantaggiosa optando per una meno vantaggiosa o, addirittura, svantaggiosa. Anzi, se adottiamo l’etica utilitarista, la cui teoria del valore pone come bene e come unico bene il piacere, omettere l’azione più utile o scegliere un’azione svantaggiosa per sè, significherebbe sbagliare e compiere il male, in quanto non verrebbe conseguito il bene, ma ciò che è svantaggioso.

In un’ottica utilitarista ed edonista, dunque, commettere un atto violento non solo è lecito, ma addirittura giusto nel caso in cui questo porti alla propria utilità. Dunque, per quale motivo biasimiamo Alessandro Garlaschi? Per quale motivo biasimiamo la violenza? Probabilmente perché, tramite un contratto sociale, abbiamo stabilito che non possiamo commettere atti violenti che danneggiano il prossimo. Ma in nome di cosa dovremmo rispettare tale contratto se, in certi casi, il rispetto del contratto è per noi svantaggioso? 

Se l’edonismo egoistico è necessario, se dunque è inevitabile comportarsi perseguendo solamente il proprio vantaggio e il proprio piacere, gli atti di violenza sarebbero inevitabili. In effetti, non tutti i pensatori condividono l’approccio edonista e sostengono che l’uomo può utilizzare la sua libertà per azioni disinteressateDarwin sosteneva l’esistenza di un istinto sociale innato che ci porta ad agire per l’interesse di un’altra persona, anche a costo di spiacevoli conseguenze per il soggetto agente. Sono casi in cui, per esempio, si decide di sacrificarsi per altri. In un’ottica religiosa tale sacrificio potrebbe essere fatto in vista della conquista di una vita ultraterrena e dunque, in ultima istanza, non sarebbe davvero disinteressato; tuttavia, sono esistite persone atee che per salvare la vita a sconosciuti hanno sacrificato la loro stessa vita. Un esempio ne sono i Giusti fra le Nazioni che, durante la Shoah, hanno salvato centinaia di ebrei dai campi di sterminio, correndo un enorme rischio per la propria vita.

Scena del film Matrix, ispirato all’esperimento mentale della Macchina delle esperienze

Esiste un esperimento mentale, chiamato La macchina delle esperienze – a cui è ispirata la trama del film Matrix-, che tenta di confutare l’edonismo egoistico. Ideato dal filosofo Roberto Nozick (1938-2002), l’esperimento ipotizza l’esistenza di una macchina in grado di far provare a chiunque decida di collegarsi ad essa tutti i piaceri possibili, permettendo così di compiere il desiderio di felicità evitando gli ostacoli della realtà. I piaceri provati, infatti, farebbero parte di una realtà fittizia. Ebbene, molte persone di fronte alla possibilità di collegarsi, seppure molto tentate, deciderebbero di continuare a vivere nella realtà. L’esperimento certamente non riesce a dimostrare che nessun uomo accetterebbe di collegarsi, anzi: esistono molte persone che accoglierebbero l’invito. Tuttavia basterebbe l’esistenza di una sola persona che declina l’invito per dimostrare che non è vero che tutti gli uomini perseguono unicamente il proprio piacere; se così fosse, infatti, tutte le persone accetterebbero l’invito senza indugio.

Contrariamente da quanto potremmo aspettarci, inoltre, gli stessi utilitaristi prendono atto di quello che viene chiamato Paradosso della felicità, che, secondo l’utilitarista classico Sidgwick (1838-1900), consisterebbe nel fatto che “L’impulso al piacere, se troppo predominante, viene a vanificare il suo stesso fine” e “I nostri godimenti attivi non possono essere conseguiti se il nostro scopo viene consapevolmente concentrato su di essi”. Riguardo a certi piaceri, inoltre, questi “Sembrano richiedere, perchè li si provi in misura accettabile, la preesistenza di un desiderio di fare il bene degli altri per se stesso, e non perchè così facendo ne deriva il nostro“. Insomma, tramite un’auto-introspezione, possiamo ammettere che spesso capita di raggiungere la felicità nonostante abbiamo agito senza volerla perseguire consapevolmente ma, anzi, avendo l’intenzione di perseguire l’interesse di qualcun altro. Addirittura lo psicoterapeuta Frankl riconosce che “Nella misura in cui il piacere viene ad essere il contenuto della propria intenzionalità, l’oggetto specifico della propria riflessione, svanisce la ragione per essere felice e si dilegua lo stesso piacere“.

Henry Sidgwick

Insomma, la prospettiva antropologica di stampo edonista e egoista non sembra essere necessaria: non sembra, infatti, che tutti i comportamenti dell’uomo vengano attuati per il suo personale piacere. Certamente, il piacere accompagna molte delle nostre azioni; tuttavia non sembra essere sempre il fine dell’agire. Per questo motivo azioni violente possono essere evitate: in quanto è possibile rispettare l’altro, in quanto dunque è possibile non tener conto del proprio vantaggio, siamo liberi di evitare la violenza, grave offesa della dignità della persona.

 

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Assemblea Gay Friendly

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Il programma dell’assemblea d’istituto svoltasi martedì scorso ha sollevate alcune polemiche tra i professori del Liceo Leonardo da Vinci di Milano, contrari all’ unilateralitá dei temi che hanno caratterizzato la giornata.

Martedì scorso, il 30 gennaio, in uno dei licei più rinomati della Milano-bene, il Leonardo da Vinci, si è svolta l’ennesima Assemblea d’Istituto. Come in ogni altra scuola superiore, sono stati gli studenti a stilare il programma della giornata, esaminato e approvato in seguito dalla Dirigente Luisa Amantia. Le giornate autogestite rappresentano per diversi alunni l’occasione per ‘balzare’ la giornata scolastica; per altri altro non è che una giornata come le altre, vissuta passivamente ad ascoltare qualcuno che si è preso la briga di organizzare Cineforum, conferenze e dibattiti. Poi, distinti dalla folla, solitamente ci sono anche studenti che, sfruttando al meglio il diritto all’autogestione, colgono la possibilità per mettere a tema argomenti interessanti, provocanti, d’attualità. Temi per cui si sente l’esigenza di un approfondimento. E’ il caso del Liceo Leonardo da Vinci: l’Assemblea d’Istituto ha in effetti affrontato una materia di estrema attualità, motivo per cui le polemiche non sono mancate.

Prima parte del programma dell’Assemblea

La giornata è stata infatti interamente dedicata a temi che possono ricadere sotto l’etichetta della Teoria Gender: Omossessualità, Affettività, Accettazione di sé, Stereotipi basati sul genere, Cambiamento di genere, Il significato della ‘T’ in LGBT, … La teoria in questione, accusata da molti genitori di invadere ingiustamente le scuole e l’educazione affettiva dei figli, fonda le proprie radici nella Conferenza Mondiale delle donne delle Nazioni Unite del 1995, svoltasi a Pechino. Durante la conferenza si riuscì a sostituire la parola sex, intesa come espressione della bisessualità di uomo e donna, con la parola gender, il cui significato ricade nel concetto di ‘sesso sociale’ che può coincidere col sesso biologico, quindi col sesso con cui siamo nati, ma non necessariamente. L’individuo è libero di scegliere il suo genere, indipendentemente dal suo sesso biologico. La teoria sembra dunque affondare le radici nel pensiero femminista, il quale vedeva nella bipolarità sessuale tra uomo e donna e nella cosiddetta ‘eterosessualità coatta’ la causa della soggezione della donna. Il gender sarebbe quindi nato proprio come antidoto al problema dell’ingiusta disuguaglianza tra uomo  e donna.

Seconda parte del programma

Negli ultimi vent’anni ha preso forma la politica del gender-mainstreaming, ovvero la politica basata sulla corrente d’opinione pro-gender, che deve far valere in ogni contesto la legittima parità dei diritti e garantire l’assoluta uguaglianza tra uomo e donna, intesa come negazione dell’esistenza di diversità tra individui di sesso opposto. L’antesignana della teoria gender, Judith Butler, definiva i concetti di uomo e donna, famiglia e matrimonio, sessualità e fecondità come terminologie che non hanno alcune legittima pretesa di conformità a natura, ree di fondare il dominio dell’uomo sulla donna e di affermare la superiorità dell’eterosessualità su tutte le altre forme di sessualità.

Ritornando al liceo milanese; a fronte di un’assemeblea d’istituto incentrata interamente su temi pro-gender, 11 professori dell’istituto si sono impegnati per far conoscere alle famiglie il loro disappunto. Non solo, infatti, la circolare riportante il programma dell’Assemblea è stata divulgata tardi (sabato 27 gennaio in previsione dell’assemblea del 30), ma anche e soprattutto perchè si è reputata la scelta di orientare gli interventi della giornata in un’unica direzione come una “operazione pericolosa e semplificativa”. Insomma, si è reputata necessaria la presenza di una controparte che equilibrasse la giornata improntata su temi riguardanti la sessualità e l’accettazione di sé. Ma perchè dovrebbe essere necessaria la presenza di chi, su temi di questo tipo, è totalmente contrario? Si potrebbe obiettare, infatti, che è proprio durante il periodo 14-18 anni che il ragazzo conosce le proprie attrazioni e le proprie tendenze: se l’educazione sessuale non viene fatta in questo periodo, quando può essere fatta?

Il problema, tuttavia, consiste proprio nel fatto che il Gender è una teoria, una teoria nata 20 anni fa e che sta prendendo piede nella nostra epoca. Non abbiamo dunque la certezza che affrontare i temi relativi alla sessualità e all’affettività tramite il paradigma ‘gender’ sia l’approccio migliore per la crescita dei bambini e dei ragazzi; esistono alternative che meritano di essere presentate insieme al Gender. Ciò che preoccupa, infatti, è la mancanza di un’alternativa e la presentazione di un’unica modalità tramite cui si può vivere la sessualità. Forse è proprio questo l’aspetto che più ha preoccupato quei professori, seppur pochi, che hanno innescato la polemica.

Il bisogno di confrontarsi in merito a temi d’attualità relativi alle discriminazioni di genere, all’orientamento sessuale, alla legittimità delle unioni civili e delle adozioni gay, è tangibile tra i giovani, i quali quotidianamente discutono in merito a questi temi. Forse dar loro la possibilità di affrontarli al meglio, tenendo conto non solo di un determinato modo di pensare, sarebbe l’occasione per una crescita personale più solida.

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La clonazione genetica: un approccio bioetico

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Il caso delle due scimmiette nate dalla tecnica di clonazione ha risvegliato immaginari fantascientifici che prevedono esseri umani clonati. Aldilà dell’immaginario comune, più o meno fantasioso, è utile chiedersi quali possano essere i problemi etici che sorgono da un’ipotetica clonazione umana.

Le due scimmiette nate grazie alla tecnica di clonazione

Sono Zhong Zhong e Hua Hua le prime due scimmie al mondo clonate con la tecnica della pecora Dolly, cioè tramite il trasferimento del nucleo di una cellula dell’individuo ‘da copiare’ in un ovulo non fecondato e privato del suo nucleo. La loro nascita è annunciata sulla rivista Cell dall’Istituto di neuroscienze dell’Accademia cinese delle scienze a Shanghai. Uno scenario che promette grandi svolte in campo scientifico. Poter svolgere sperimentazioni su cloni animali, ad esempio, porterebbe benefici nell’ambito diagnostico e terapeutico per malattie ereditarie. Ma andiamo con ordine e, al fine di evitare una confusione di termini, cerchiamo di comprendere in che cosa consiste la tecnica della clonazione. 

Il concetto di clone non nasce in ambito delle biotecnologie ma è stato utilizzato innanzitutto nella biologia vegetale per descrivere la talea, capace di dare un duplicato della pianta; successivamente è stato introdotto anche in campo della biologia dei microrganismi e cellulare che ci aiuta a conoscere la modalità più semplice di riproduzione presente in natura: la divisione di una cellula in due cellule figlie. Esattamente l’insieme dei discendenti di un’unica cellula prende il nome di clone, che etimologicamente significa germoglio, e condivide lo stesso patrimonio genetico, identico alla cellula madre. Questo tipo di riproduzione, che vede come momento importante la duplicazione del DNA, è propria di molti organismi, tra cui quelli pluricellulari che, tramite la replicazione delle cellule, possono crescere e sostituire cellule usurate. Un singolo uomo, dunque, essendo un organismo pluricellulare ed essendo un insieme di cellule derivate dalla stessa cellula madre e identiche ad essa, potrebbe essere definito come clone. A livello di un organismo inteso in toto, invece, si definisce clone l’insieme di almeno due individui geneticamente identici e derivanti dallo stesso zigote (la prima cellula di un individuo, che si ottiene tramite fecondazione). Un clone è esattamente la coppia di gemelli omozigoti, due individui che condividono lo stesso patrimonio genetico. La clonazione, insomma, è un processo che già esiste in natura e che l’uomo tenta di riprodurre tramite le biotecnologie.

La tecnica di clonazione per trapianto nucleare o fusione cellulare praticata per la pecora Dolly

Esistono due procedimenti per la produzione di cloni: per scissioneper trapianto nucleare o fusione cellulare. Il secondo metodo, utilizzato sia per la famosa pecora Dolly nel 1997 che per le scimmie, risulta nettamente migliore del primo e prevede il coinvolgimento di tre diversi individui (nel disegno, tre diverse pecore). Dal primo, l’individuo da clonare, viene prelevata una cellula che sia già particolarmente predisposta alla proliferazione e da questa viene estratto il nucleo nel quale è presente il DNA; da un secondo individuo si preleva una cellula uovo dalla quale viene tolto il nucleo; la cellula uovo e il nucleo della prima cellula vengono così uniti tramite fusione e formano una nuova cellula stimolata ad autoreplicarsi e inserita nell’utero dell’individuo portatore, dal quale nascerà l’individuo clonato. Quest’ultimo sarà esattamente uguale al primo individuo, dal quale eredita l’intero corredo genetico.

Non possiamo certo dire che la pecora Dolly, il primo animale ad essere stato clonato tramite fusione cellulare, godesse di buona salute; tuttavia la sua nascita, esattamente come quella delle due piccole scimmiette, ha suscitato grande curiosità e risvegliato un immaginario piuttosto diffuso: il trasferimento all’uomo di questa tecnica di riproduzione che permetterebbe di rendere perenne il patrimonio genetico di un individuo. Di fronte a uno scenario di questo tipo sono inevitabili i problemi etici che possono nascere: è lecito o no mettere al mondo un individuo tramite la riproduzione per clonazione? Si potrebbe evitare di affrontare la questione declassandola come inutile, in quanto la clonazione dell’uomo sembra ancora un’intrigante trama da film fantascientifico, impossibile da attuare. Oppure, confidando nelle coscienze e condannando tale pratica, sarebbe facile dar per scontato che mai e poi mai verrà applicata in ambito umano. Tuttavia, la clonazione delle due scimmie, animali così vicini all’uomo, dovrebbe provocarci ancor più di quanto abbia potuto fare la pecora Dolly dei ricercatori di Edimburgo. La clonazione umana, infatti, esattamente come quella animale, potrebbe svelare diversi vantaggi. Innanzitutto il metodo del trapianto nucleare si è rivelato estremamente utile per lo studio delle attivazioni o inattivazioni dei geni durante lo sviluppo, con la prospettiva di controllo della proliferazione tumorale. O, ancora, due individui animali identici e affetti dalla stessa malattia potrebbero essere curati in modi diversi e in ambienti diversi, evidenziando così quale delle due cure appare come più efficace.

La pecora Dolly

Il Comitato Nazionale per la Bioetica (CNB) nel 1997 sosteneva in particolare due motivi validi dal punto di vista tecnico-scientifico per avanzare la tecnica della clonazione anche all’uomo. Innanzitutto, tale procedimento, potrebbe evitare nell’individuo clonato e figlio di due portatori sani di una malattia genetica la manifestazione della malattia. In secondo luogo, la tecnica potrebbe permettere ad un individuo sterile di procreare. Esistono tuttavia ulteriori scenari, tendenti all’apocalittico, spesso proiettati sul grande schermo. Uno fra tutti contempla la clonazione di uomo come quello strumento che garantisce una banca-organi a cui attingere nei casi di grave malattia o nel caso di procreazione tramite madre surrogata, come si può osservare dal famoso film The Island (2005). Oppure, sfociando nell’eugenetica, sarebbe possibile selezionare solo quei corredi genetici sani e privi di mutazioni o predisposizioni a malattie e, da questi, far discendere la popolazioe futura, che potrebbe godere così di un’ottima salute.

Lo stesso CNB, nonostante riconosca la potenziale utilità della clonazione umana, dal punto di vista morale condanna categoricamente tale tecnica, ricorrendo innanzitutto a un celebre pensatore del secolo scorso: Hans Jonas (1903 – 1993). Il documento stilato dal Comitato ormai 19 anni fa, parlando dei riscontri morali della clonazione, fa riferimento immediatamente all’identità individuale come oggetto che merita massimo rispetto. E’ l’identità dell’individuo, infatti, che sembrerebbe minacciata. L’identità è fondata non solo dalla profonda coscienza che ognuno ha della propria persona e che gli permette di concepirsi come unico, ma, soprattutto, dalla propria storia, ovvero dalla consapevolezza che ciò che sono io deriva dalla modalità con cui ho vissuto certe esperienze ambientali e, soprattutto, dalle scelte compiute come atti liberi. Questi aspetti sono necessari per l’identità individuale e, se fossero anche sufficienti, la clonazione non avrebbe grosso rilievo e sarebbe eticamente accettabile. Tuttavia, il rispetto dell’identità “implica che nessuno abbia il diritto di decidere ciò che io debbo essere”. Si potrebbe obiettare che la clonazione stabilisce solamente una parte dell’identità, definendone il corredo genetico: i restanti aspetti sopra menzionati non verrebbero intaccati. Ma, nonostante l’identità individuale non sia determinata solamente dal DNA, essa si fonda innanzitutto sul patrimonio genetico, che getta le base per il nuovo individuo. Insomma, nell’età contemporanea sembra non sia sufficiente difendere l’autonomia della persona solamente in ambito di giudizio, politico, religioso o di scelta morale; con la nascita della clonazione è necessario inoltre difendere l’autonomia genetica, non intesa come autodeterminazione del proprio genoma, ma del diritto di possederne uno unico, non replicato.

Il filosofo Hans Jonas

Un individuo venuto al mondo tramite clonazione sarebbe nato come ‘copia’ intenzionalmente realizzata di un altro essere umano e verrebbe considerato in relazione al suo ‘imitare’ un archetipo, un modello di riferimento. H. Jonas si espresse così nella sua opera Dalla fede antica“non violare il diritto all’ignoranza che è una condizione per un possibile, autentico agire; in altri termini: rispettare il diritto di ogni vita umana a trovare la propria strada e ad essere una sorpresa per se stessa”. Le parole del filosofo indicano il valore all’irripetibilità e unicità come diritto all’ignoranza, ovvero quel diritto riconosciuto ad ogni uomo di vivere originalmente le proprie esperienze, tramite cui incontra se stesso, un se-stesso di cui non esista già un paradigma.  Altro non è che l’applicazione dell’imperativo categorico dell’etica della responsabilità alla prospettiva della clonazione, imperativo formulato dallo stesso pensatore: “Agisci in modo che le conseguenze della tua azione siano compatibili con la permanenza di un’autentica vita umana sulla terra” 

Inoltre, non sembra giustificabile l’intento di chi, tramite la clonazione, volesse utilizzare i risultanti cloni come mezzi, essendo i cloni stessi esseri umani ed essendo generalmente condiviso il principio secondo cui un essere umano non deve essere trattato come mezzo. Ma la prospettiva più preoccupante, secondo il comitato bioetico, sembra la possibilità di pianificare a livello genetico le future generazioni, affinchè corrispondano ad un modello plasmato ad arbitrio da un individuo o da una classe dirigente.  Nell’ambito della bioetica cattolica, che condivide totalmente la posizione della bioetica laica, viene segnalata inoltre la frantumazione del nesso tra procreazionesessualità. La generazione, infatti, tramite clonazione avverrebbe totalmente tramite un intervento tecnico e in forma completamente asessuale.

Per concludere, la clonazione, procedimento già presente in natura e riprodotto tramite le biotecnologie, suscita non poche problematiche morali affrontate dalla bioetica, la quale, finora, nonostante i riconosciuti possibili vantaggi, si è espressa negativamente nei confronti dell’applicazione della tecnica ad esseri umani. E’ probabile che la scienza non sarà in grado di approdare ad un individuo umano clonato. In caso contrario, siamo già a conoscenza del parere di chi, immaginando una possibile applicazione della procedura che ci appare ancora fantascientifica, in modo critico, ha tenuto conto della tutela dei diritti umani. 

.Rebecca.

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Il riconoscimento facciale e il Panopticon

Il seguente articolo è stato scritto per il sito de Il Superuovo


La tecnica del riconoscimento facciale dilaga oramai in diverse App, scaricabili da qualsiasi Smartphone, che mettono a disposizione funzioni per riconoscere persone sconosciute e risalire ad alcune loro informazioni, sfruttando i Social Network. In un futuro non troppo prossimo sembra sarà possibile osservare qualsiasi persona, permettendo così un controllo della sicurezza maggiore. Ma una prospettiva di questo tipo desta anche qualche preoccupazione…

Da pochi giorni l’applicazione di Google Arts & Culture presenta la funzione ‘Is your portrait in a museum?’ che permette di scoprire quale sia il ritratto che più ci somiglia. Attraverso lo scatto di una semplice fotografia in cui viene ritratto il nostro volto, la nuova funzione è in grado di trovare tra numerosissimi dipinti diffusi nel mondo quello che più ci somiglia. Nel giro di pochi giorni, l’applicazione ha visto aumentare significativamente il numero di download e ha entusiasmato gli utenti, ai quali è ora possibile trovare il proprio “sosia” nell’arte del passato. La funzione utilizza la tecnica del riconoscimento facciale, che le permette di confrontare il viso che appare nella foto analizzata e i numerosissimi volti rappresentati nella maggior parte dei dipinti del mondo. Il riconoscimento facciale è una tecnica biometrica che, sfruttando elementi del volto, risale all’identità dell’individuo ed è utilizzata da diverse applicazioni. Oltre a Google Arts & Culture, infatti, esistono diverse App che studiano il volto per raggiungere diversi scopi. Per esempio BlippAR, startup inglese che, imitando le modalità dei social network, permette di effettuare una scansione del proprio viso per renderlo una carta d’identità accessibile agli altri utenti. Il volto diventa una sorta di bacheca a cui vengono ‘appese’ quelle informazioni che l’utente intende comunicare a coloro che lo osservano e sono accessibili nel momento in cui la fotocamera dell’App è puntata sul volto interessato, che appare sullo schermo circondato da un alone che presenta diverse icone di accesso a informazioni diverse. Si può far sapere, per esempio, quale sia il proprio stato d’animo o il brano musicale del giorno. BlippAR non è ancora sufficientemente diffuso per permetterci di venire a conoscenza delle informazioni della maggior parte delle persone che incontriamo per strada; tuttavia, se dovessero aumentare i suoi utenti, uno scenario di questo tipo potrebbe sembrare realistico, e non più eccessivamente futuristico.

Google Art & Culture

O, ancora, FindFace è un’applicazione ideata da due giovani russi che ha riscosso molto successo nel suo grande Paese. FindFace sfrutta la rete sociale più diffusa in Russia, Vkontakte, fondato e in seguito abbandonato da Pavel Durov, che ha raggiunto nel 2014 210 milioni di utenti registrati e grazie alla quale il software, nel tentativo di identificare una persona partendo dal volto ritratto da una foto, raggiunge il suo esito con un’accuratezza del 70%. Un’applicazione molto simile è FacialNetworks, basata su un algoritmo che consulta le foto caricate sui vari social network per determinare l’identità di un soggetto. Anche il motore di ricerca di Stato cinese, Baidu, utilizza un sistema di Face Recognition che, basandosi su un database di 1 miliardo di foto, ha un’accuratezza del 99, 8% e sembra verrà utilizzato per identificare i turisti della famosa città storica Wuzhen.

L’utilizzo dello strumento del riconoscimento facciale è aumentato esponenzialmente sopratutto nell’ambito della sicurezza e dell’ordine pubblico, ma non solo; questa tecnica infatti è sfruttata anche con intenti lucidi, come dimostrato dalle App sopra citate. A prescindere dal suo utilizzo, pare tuttavia che il software desti preoccupazioni in diverse persone. Applicazioni di questo tipo, infatti, potrebbero essere sfruttate da stalker o molestatori o, pensando alla gestione politica, potrebbe servire per controllare le masse in nome di una maggiore sicurezza, invadendo eccessivamente l’ambito della privacy. Per esempio, il riconoscimento facciale potrebbe essere sfruttato nell’ambito della pubblicità mirata: riconoscendo l’individuo che sta osservando degli strumenti musicali da una vetrina di un negozio, si può sfruttare l’informazione proponendogli pubblicità dell’ambito musicale, centrando in pieno i suoi interessi.

L’applicazione BlippAR

L’assoluto e costante controllo, reso possibile dall’essere visti costantemente, potrebbe garantire ordine e sicurezza, ma andrebbe a ledere la libertà del singolo. Il riconoscimento facciale permetterebbe di osservare determinate azioni e di riconoscerne il fautore, il quale, se sa di essere osservato, probabilmente modificherebbe la sua condotta. E’ lo stesso meccanismo messo in atto dal Panopticon del filosofo Jeremy Bentham. Il Panopticon altro non è che una struttura dalla forma circolare, inizialmente pensata per custodire detenuti ma che potenzialmente potrebbe adattarsi a qualsiasi edificio in cui si radunano persone da sottoporre a controllo. Lunga la circonferenza sono situate le celle dei detenuti, delimitate da pareti che, come raggi, vanno dalla circonferenza al centro. Tra il centro e le celle, però, esiste uno spazio anulare non adibito alle celle ma destinato all’ispettore, da cui quest’ultimo può vedere i detenuti senza essere visto, può comunicare con loro e può ascoltarli senza essere sentito. La sorveglianza discontinua nell’atto ma continua nel suo effetto è realizzata proprio per prevenire possibili comportamenti sbagliati e, in ultima istanza, anche per controllare le menti degli uomini che, sentendo costantemente il rischio di essere osservati, imparano anche a pensare diversamente, evitando quelle riflessioni e quei desideri che potrebbero condurli ad azioni sbagliate. In una struttura di questo tipo, gli individui sanno che qualsiasi cosa facciano è risaputa; in una società come la nostra invece oscilliamo tra la certezza che, tramite le centinaia di informazioni messe su web, possiamo essere osservati e la certezza che, in fondo, la nostra vita privata è tutelata. Tuttavia risulta interessante il confronto tra il Panopticon di Bentham – che, etimologicamente, significherebbe osservare (opticon) tutti (pan) – e il mondo del Social Network. Le App sopra citate, infatti, sfruttano ciò che è contenuto nei Social, e più la base di dati sfruttata è ampia, più la loro accuratezza nel riconoscere gli individui sale.

Facebook-Panopticon

Probabilmente il Social Network più potente, da questo punto di vista, sarebbe Facebook che, con i suoi 2 miliardi di utenti, vede condividere 41 mila post al secondo: una fonte d’informazione utilissima. Tramite ciò che condividiamo, scriviamo o apprezziamo sui social, possiamo essere osservati: quante volte ci ritroviamo stupiti del fatto che Facebook sa ciò che ci piace o ciò che ci interessa? A differenza, però, del progetto di Bentham, il Panopticon dei nostri giorni è costruito proprio da noi, da coloro che sono osservati, fornendo pubblicamente centinaia di informazioni sul nostro conto.

 

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The Giver: il mondo perfetto che non conosce felicità

Il seguente articolo è stato scritto per il sito de Il Superuovo


Il celebre romanzo per ragazzi “The Giver” ha riscosso enorme successo tra il giovane pubblico, soprattutto in seguito alla sua trasposizione nel mondo del cinema. In un mondo distopico, in cui non si conoscono nè dolore nè sofferenza, ma nemmeno gioia e amore, un ragazzo di 12 anni trova il coraggio per ribellarsi a un sistema descritto come totalitario. Vale davvero la pena rinunciare alle differenze e a ciò che ci rende unici per guadagnare sicurezza e stabilità?

 

Il mondo di Jonas, protagonista di The Giver

‘Da grande sofferenza scaturì una soluzione: luoghi idilliaci in cui il disordine divenne armonia’. Così il Capo del Consiglio degli Anziani (nel film Meryl Streep) descrive il mondo del racconto di The Giver, celebre romanzo per ragazzi del 1993 trasportato sul grande schermo nel 2014. I presupposti della storia rimarcano quelli della fantascienza classica: a lungo guerre e scontri hanno dilaniato l’umanità, dalle cui rovine rinasce una comunità controllata dal potere degli anziani, concepita per essere perfetta. Sorge così il mondo di Jonas, il protagonista del romanzo, il quale vive in una realtà privata del dolore e della sofferenza, che non conosce differenze e discriminazioni, in cui i desideri sono stati eliminati. Un Consiglio di Anziani gestisce la comunità tramite il controllo di ogni aspetto della vita, dai desideri più intimi al ruolo che il singolo è chiamato a ricoprire nella società. La libertà è ridotta al minimo, in quanto ‘La gente quando ha la possibilità di scegliere fa scelte sbagliate’ e, dunque, per evitare che venga commesso il male, la capacità di scelta è posta totalmente nelle mani di pochi, gli unici che sanno quale sia il bene della comunità. Nel passato le differenze sono state motivo di odio e discriminazione, ragione per cui nel nuovo mondo non devono esistere: la totale omologazione sostituisce l’ingiusta diversità, troppo pericolosa per una comunità che aspira alla perfezione. Ciò si concretizza in un linguaggio povero, privo di espressioni che possano indicare esperienze originali, freddamente preciso. Non di rado infatti i genitori di Jonas richiamano il ragazzino ad una maggior “precisione di linguaggio”, che non conosce parole di affetto o tenerezza. Nessun individuo, infatti, ha fatto esperienza di cosa significhi essere amato o amare profondamente, tanto da concepire l’espressione “amore” come qualcosa di arcaico, di passato, di inesistente, “privo di significato”. Esiste la stima o il piacere a trascorrere del tempo in compagnia, ma, avendo eliminato il desiderio e la memoria dalla vita delle persone, l’amore nella sua più completa espressione non riesce a trovare spazio. La memoria del passato infatti non è accessibile alle persone comuni, nelle quali le immagini del tempo lontano desterebbero nostalgia e seminerebbero i germogli per una possibile ribellione al sistema. Il mondo conosciuto è visto come il migliore in assoluto, perchè finalmente privo di sofferenza e dolore. Affinchè questo traguardo sia mantenuto nella sua perfezione, si ricorre anche alle pratiche dell’infanticidio, dell’eutanasia e di quella che oggi chiameremmo maternità surrogata. Bambini che nascono con imperfezioni fisiche o difficoltà a crescere sani, forti e disciplinati, vengono “congedati altrove”. Lo stesso vale per gli anziani che, raggiunta una certa età, non sono più utili per la comunità. La morte, tuttavia, non ha un ruolo preciso nello scenario di The Giver, in cui i personaggi non pronunciano mai espressioni come uccidere morire. Il congedo altrove cela proprio il mistero e il dolore della morte ed è utilizzato per mantenere la comunità nella perfezione, eliminando qualsiasi fonte di diversità e difficoltà.

Cerimonia di Congedo Altrove

neobimbi nascono dalle donne cosiddette “partorienti“, considerate negativamente dal resto della comunità, destinate alla generazione per tre anni e poi mandate a svolgere lavori manuali. I nuovi nati, affidati a due genitori non biologici, formeranno le unità famigliari e vivranno nelle unità abitative. Nelle unità famigliari è obbligatorio condividere le proprie emozioni, raccontando come si è vissuta la giornata e utilizzando il più precisamente possibile il linguaggio, senza mentire mai. Le Regole prevedono un percorso educativo definito da alcune tappe, tra cui la più importante avviene al compimento del dodicesimo anno d’età, momento in cui gli Anziani, tramite la Cerimonia di Designazione, conferiscono ad ogni ragazzino il lavoro che dovrà svolgere per tutta la vita. Avviene in questo momento la svolta che porterà Jonas a vivere l’anno più importante della sua vita, ricevendo il compito di Accoglitore di memorie. L’unico spiraglio di luce, infatti, della comunità priva di memoria è rappresentato da colui che conosce la memoria del mondo, utile al Consiglio nel prendere decisioni per evitare di ricadere negli errori del passato, intriso di sofferenza e dolore. Jonas è destinato a sostituire l’ormai anziano Accoglitore che, tramandando i suoi ricordi al ragazzo, diventa dunque il Donatore (The Giver). Jonas conosce così la bellezza e la felicità che il mondo ha lasciato per guadagnare sicurezza e tranquillità, ma fa esperienza anche del dolore profondo da cui il mondo è voluto scappare. Il desiderio di poter rivivere la bellezza ormai perduta e di farla conoscere a coloro che sta imparando ad amare, spingono il giovane protagonista a ribellarsi e a trovare un modo per far risvegliare l’umanità dall’oblio in cui era immersa, sfuggendo all’estremo controllo del sistema.

John Lennon

Immaginandosi il mondo di Jonas tra le parole della geniale autrice Lois Lowry e osservandolo nelle immagini del regista Phillip Noyce, si può pensare alla celebre canzone Imagine di John Lennon. Quest’ultimo, a differenza dell’autrice del romanzo, sogna un mondo ideale che si augura possa prima o poi nascere dalla fratellanza e dal rispetto tra gli uomini. Il mondo della Lowry invece si rivela come distopico, tutt’altro che qualcosa da augurarsi. Tuttavia, il celebre ex cantante dei Beatles e la scrittrice statunitense immaginano comunemente un mondo privo di differenze. ‘Imagine there’s no countries. And no religion too. Imagine no possession. No need for greed or hunger.’. Da un lato, John Lennon vede come soluzione alla guerra un mondo unito, senza differenze nelle nazioni, nei possessi, nelle religioni; Lois Lowry, invece, si immagina cosa accadrebbe se davvero tutte le differenze fossero eliminate: il mondo sarebbe sicuramente privo di guerra e violenza, ma non potrebbe nemmeno conoscere l’amore e la felicità.

Il romanzo sembra affermare che il rifiuto della sofferenza, che tramite la tecnica molto avanzata può concretizzarsi sempre più profondamente, allevia l’uomo di un pesantissimo fardello ma, al contempo, lo priva della possibilità di esperire la piena felicità, accontentandolo dell’agiatezza e della tranquillità. Il bisogno di delegare il controllo della vita a qualcuno di “migliore” sembra attraversare anche il nostro mondo. La libertà che gli individui hanno guadagnato negli anni, infatti, pare spaventi le stesse persone, insinuando in loro un senso di insicurezza e paura di commettere il passo falso. Come ha sostenuto Erich Fromm, nel XIX secolo c’è stata una fuga dalla libertà, concretizzatasi nell’affidare la responsabilità decisionale a pochi individui, che garantivano in cambio un’indistruttibile sicurezza. E’ questa la logica che si nasconde dietro ai totalitarismi, i quali prometto stabilità in cambio della libertà individuale. Per questo motivo, la stessa scrittrice del romanzo paragona il mondo di The Giver a un sistema totalitario, col quale ha in comune non solo la rinuncia alla libertà ma anche la censura e la rimozione dei libri. Quest’ultimo aspetto ricorda inoltre il romanzo del geniale George Orwell1984; anche in questo contesto non esistono libri da leggere nè fogli su cui poter scrivere e, come nel mondo di Joans, la memoria del passato è pressoché assente e offuscata. La lettura e la scrittura generano quello che gli antichi filosofi della Stoà, gli Stoici, chiamavano linguaggio interiore, fatto di segni e di conseguenze logiche. E’ il linguaggio interiore, infatti, che permette il pensiero personale, col quale si giudica il mondo e si sfugge al controllo totalitario. Questo è il motivo per cui, con le parole di Lois Lowry, ‘La censura è sempre una cosa molto pericolosa e la rimozione di certi libri dalle scuole e dalle librerie è sempre stata uno dei primi sintomi del totalitarismo’. La ribellione di Jonas, la cui coscienza è maturata proprio grazie alla lettura, allo studio e alla riflessione sul passato, sorge dalla sua capacità di guardare la realtà con occhi nuovi, giudicandola ingiusta.

Lois Lowry, 80 anni, autrice del romanzo distopico “The giver”

Avvicinarsi al mondo di The Giver, un romanzo scritto per un pubblico giovane ma abbastanza profondo da interessare anche il mondo adulto, permette di sviluppare riflessioni sul nostro presente, troppo impegnato a rimuovere il dolore dalla faccia della Terra per rendersi conto che, senza sofferenza e con l’estremo controllo volto alla perfezione, la felicità non diventa altro che un piacevole senso di stabilità e sicurezza.

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Animali e diritti nella filosofisa moderna e contemporanea

Il seguente articolo è stato scritto per il sito de Il Superuovo


E’ lecito concepire l’animale come simile a noi e, pertanto, riconoscerlo come portatore di diritti oggettivi e inalienabili? Un breve excursus tra alcuni dei principali pensatori considerati negli ambienti animalisti può aiutare a capire quanto il problema della questione animale (qual è l’atteggiamento corretto che l’uomo deve assumere nei confronti degli “animali non uomini”?) sia complesso e tutt’altro che risolto.

 

Il dibattito pubblico degli ultimi anni sembra particolarmente interessato alla cosiddetta questione animale, ovvero quell’insieme di problemi etici e filosofici riguardanti gli animali e al corretto atteggiamento che l’uomo deve assumere nei loro confronti. Il filosofo contemporaneo Peter Singer, esponente dell’etica consequenzialista, è il pensatore a cui la maggior parte dei movimenti animalisti fa riferimento: attraverso Liberazione Animale (1975), opera che è stata definita coraggiosa, il filosofo statunitense ha documentato le orribili sofferenze a cui sono sottoposti gli animali a causa di pratiche come la vivisezione, o ai contesti invivibili tipici degli allevamenti intensivi. Il pensiero animalista promuove l’estensione della definizione di soggetto morale e giuridico dal mondo umano a quello animale, rifiutando categoricamente lo specismo, ovvero la discriminazione degli esseri viventi in base alla loro specie di appartenenza. Superare tale discriminazione significherebbe approdare all’egualitarismo specifico, nonché l’antitesi della tradizionale posizione di pensiero che il filosofo statunitense Nozick (1938-2002), con tono polemico, ha definito Utilitarismo per gli animali, kantismo per le persone. Guardare l’animale come mezzo e l’uomo come fine è tipico di una forma di pensiero che riconosce in quest’ultimo diritti oggettivi e inalienabili, non riconosciuti invece per l’ “animale non uomo”. Tale discriminazione si fonda sul riconoscimento di una preziosità incommensurabile che caratterizza solamente l’uomo e che nasce dalla possibilità che egli ha di esercitare una classe di attività che è qualitativamente diversa rispetto alle attività che sia uomini che “animali non uomini” possono compiere, ed è la classe che comprende le attività razionali, deliberative e volitive, tra cui gli atti di amore. Tuttavia, obietta Bentham (fondatore dell’utilitarismo), “Il problema non è possono ragionare?, né possono parlare?, ma possono soffrire?”. Sì, gli animali possono soffrire, e proprio per la loro capacità di soffrire devono essere trattati egualmente agli uomini, senza subire più la già citata discriminazione specista.

Peter Singer, 71 anni

Una corrente di pensiero diametralmente opposta a quella fondata da Jeremy Bentham, è l’etica delle virtù, che segue l’insegnamento di pensatori come Aristotele e Tommaso d’Aquino. Tale forma di pensiero obietta all’analisi utilitarista che la sofferenza e la ricerca di piacere che caratterizza l’animale sono diverse rispetto a quelle insite nell’uomo. L’uomo, come delinea il filosofo contemporaneo Samek Lodoviciappare proteso oltre la soddisfazione puntuale delle proprie preferenze (L’utilità del bene, Jeremy Bentham, l’utilitarismo e il consequenzialismo), a differenza dell’animale comune invece che, soddisfacendo i propri bisogni, non sperimenta la delusione dell’obiettivo conseguito. Al contempo, l’uomo è capace di un tipo di sofferenza qualitativamente diversa rispetto a quella dell’animale, che tocca il suo animo e la sua psiche molto in profondità, tipicamente indicata con il termine di dolore. Dunque, sembrerebbe che la fenomenologia del desiderio e della sofferenza degli utilitaristi sia carente nella misura in cui paragona e eguaglia tali esperienze a quelle vissute dagli “animali non uomini”.

Esiste un’ulteriore prospettiva che intende fondare la personalità morale e giuridica anche per gli animali. Tale pensiero fa riferimento soprattutto a Tom Regan, noto pensatore contemporaneo venuto a mancare all’inizio del 2017. Quest’ultimo, adottando un’impostazione di tipo giusnaturalistico, postula l’esistenza di diritti naturali oggettivi di cui sono portatori gli uomini come gli animali. Sono portatori di diritti tutti gli esseri che sono soggetti-di-una-vita, ovvero tutti quegli esseri in grado di percepire, ricordare, preferire, desiderare, concepire il proprio futuro (I diritti animali). Dunque, il solo fatto di essere portatori di un’anima, intesa come soffio vitale, indipendentemente dal fatto che questa sia, utlizzando termini aristotelici, anima vegetativa o sensitiva o razionale, giustifica il riconoscimento di diritti oggettivi e inalienabili.

Singer e Regan solitamente non convergono nel pensiero, appartenendo a due prospettive filosofiche differenti. Tuttavia, insistono entrambi sull’ingiustizia che lo sfruttamento dell’animale non umano porta con sè, motivo per cui rappresentano per i movimenti animalisti importanti punti di riferimento.

Esiste una terza prospettiva interessante, volta, come le prime due, al rispetto per l’animale, ma che non intende riconoscergli e fondare dei diritti inalienabili e oggettivi. Tale prospettiva è incarnata dalle etiche della responsabilità umana. Tali etiche rifiutano la posizione radicale di chi intende assimilare gli animali alle persone e, insistendo molto di più sulla responsabilità umana piuttosto che sui diritti degli animali, rappresentano quella “terza via” tra specismo tradizionale e egualitarismo interspecifico. Passmore, uno dei maggiori esponenti di tale pensiero, afferma infatti che una cosa è dire che è sbagliato trattare gli animali con crudeltà, un’altra che gli animali hanno dei diritti. In questa concezione, è importante de-umanizzare l’animale azichè umanizzarlo, processo messo in atto proprio dalle teorie egualitariste che pare intendano fondare il rispetto dell’animale in quanto simile a noi. Tuttavia sembra che rispettare qualcosa, o qualcuno, solo nella misura in cui questo è simile a noi è un approccio ben diverso dal rispetto. L’accettazione integrale dell’alterità animale rispetto a quella umana e il rifiuto di inventare nuove identità che l'”animale non uomo” può indossare, rischia insomma di rafforzare l’antropocentrismo che l’approccio dei movimenti animalisti intendono respingere.

Il problema del riconoscimento di diritti anche per gli animali è sicuramente una questione complessa e delicata, che interessa da sempre i pensatori ma che, negli ultimi anni, a causa anche della possibilità data dalla tecnologia di sfruttare maggiormente tali esseri viventi, è diventato argomento molto caldo del dibattito pubblico. Sicuramente, ci offre lo spunto per riflettere meglio su cosa siano effettivamente i diritti di cui parliamo, perchè l’uomo può esserne portatore e quale sia il motivo per cui sono stati individuati e riconosciuti come oggettivi e inalienabili.

 

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L’intelligenza artificale e il modello della tracotanza

Il seguente articolo è stato pubblicato in data 7 dicembre per il sito de Il Superuovo


Molti film ambientati nel futuro prevedono un avvenire distopico, in cui il rapporto tra l’uomo e le macchine non riesce ad essere pacifico. Il cinema sembra riflettere il modello della Hybris, ovvero della tracotanza tipica dell’uomo che sfida i limiti imposti dalla Natura. Il progetto dell’Intelligenza Artificiale potrebbe essere la sfida che pecca di Hybris della nostra epoca?

Scena del film “Her”

Il cinema fantascientifico, proiettandosi in un futuro più o meno prossimo, ha spesso sfruttato il concetto di Intelligenza Artificiale (I.A.), ovvero quel progetto che si prefigge l’analisi delle facoltà mentali e la riproduzione di queste mediante dispositivi informatici. Tali dispositivi sarebbero così in grado di prestazioni che, agli occhi di un osservatore umano comune, sembrerebbero relative esclusivamente all’intelligenza umana. Da diversi anni ormai, vengono proiettati sul grande schermo film in cui robot dotati di intelligenza svolgono ruoli preponderanti: dall’epocale 2001: Odissea nello spazio (1968), passando per Blade Runner (1982) e i più recenti A.I. (2001) e Ex_Machina (2015). La lista potrebbe proseguire citando almeno un’altra ventina di film che hanno intrattenuto il pubblico fin dagli anni Settanta del secolo scorso, raccontando di un mondo futuro in cui robot dotati di intelligenza e con sembianze spesso antropomorfe accompagnano la quotidianità degli esseri umani. Non sempre gli androidi hanno forma umana nelle pellicole cinematografiche, nonostante la ricerca scientifica non escluda di poter un giorno instillare un’intelligenza artificiale in un corpo sintetico del tutto simile al nostro; tuttavia, laddove la storia racconta di robot, questi sono dotati di un’intelligenza estremamente simile alla nostra, e in certi casi addirittura sovrapponibile (come nella vicenda di Blade Runner). Insomma, la maggior parte dei robot intelligenti descritti dal cinema supererebbe il famoso Test di Turing,

Alan Turing (1912-1954)

ideato dall’omonimo matematico Alan Turing nel 1950. Il test altro non è che il criterio per determinare se una macchina sia in grado di pensare oppure no. Il film Ex_Machina, per esempiopone al centro della trama lo svolgimento del test, la cui componente umana è data da Caleb, il protagonista. Quest’ultimo è l’interrogante del test e interagisce con Ava, un robot femmina, ponendole domande e mettendo alla prova la sua intelligenza. La sfida consiste nel verificare se Caleb, nonostante sappia di interagire con una macchina, percepisca quest’ultima come un essere pensante e cosciente. Se ciò avviene, Ava ha superato il test e potrebbe essere definita un’Intelligenza Artificiale a tutti gli effetti. Il film, diretto da Alex Garland, non gode di una lieta fine; nel finale infatti si comprende pienamente quale fosse lo scopo di Ava che, pur di scappare dal laboratorio, utilizza tutte le informazioni a lei possibili e, senza provare alcun rimorso, manipola Caleb, inducendolo a provare dei sentimenti per lei.

Momento del test di Turing, Ex_Machina (2015)

La ribellione di Ava verso il suo creatore, talmente profonda da spingerla a commettere un omicidio, riflette un rischio molto diffuso nelle trame dei film fantascientifici: l’incapacità dell’uomo di controllare ciò che ha creato. Provando a pensare alle pellicole cinematografiche che hanno raccontato di un futuro in cui robot dotati di intelligenza affiancano l’uomo, ci si rende conto che molte di queste prevedono un avvenire distopico o, perlomeno, poco ottimista. Interessante a tal proposito è la serie TV statunitense WestWorld (2016) ideata da J. Nolan, che racconta di un parco divertimento a tema western popolato da androidi del tutto simili agli umani in cui, agli uomini, è concesso tutto, senza alcuna ricaduta legale, motivo per cui nel parco vige una violenza inaudita. In questo caso, come in molti altri esempi cinematografici, gli androidi, divenendo sempre più simili agli umani e vista la loro dignità calpestata, tentano di ribellarsi ai loro creatori. Lo stesso avviene in Ex_Machina, come detto sopra. Anche 2001: Odissea nello spazio, considerato come un capolavoro cinematografico che è stato in grado di dare una svolta al mondo dei film, prevede un rapporto molto problematico con l’I.A. Quest’ultima, chiamata HAL 9000, controlla l’astronave Discovery One, su cui viaggiano cinque astronauti in missione spaziale. Il supercomputer fa parte di una serie di macchine che non è mai caduta in errore e risulta altamente affidabile. Come qualsiasi macchina, anche la HAL 9000 ha una programmazione a cui rimane assolutamente fedele, a tal punto da diventare pericolosa per gli umani a bordo dell’astronave. O, ancora, Matrix (1999), la cui storia si basa sull’idea che in passato ci sia stata una guerra tra uomini e intelligenza artificiale, vinta da quest’ultima che ora sfrutta gli esseri umani per ricavare energia, motivo per cui alcuni individui continuano a combattere. Meno pessimistico risulta invece il più recente film Her (2013): non prevede catastrofi, guerre o ribellioni violente. Tuttavia, nemmeno quest’ultimo esempio cinematografico esula dal presentimento comune di un rapporto problematico uomo-macchina. Infatti, seppur privo di violenza, anche Her racconta di un futuro prossimo in cui le intelligenze artificiali saranno talmente sviluppate da poter diventare compagne di vita degli uomini, come succede al protagonista Theodore, condividendo con loro emozioni, stati d’animo e addirittura relazioni d’amore. Nemmeno in questo caso, però, sembra possibile un rapporto sereno e duraturo tra gli uomini e i computer, essendo questi ultimi superiori al genere umano e capaci di un amore sincero diretto a numerosi individui, a differenza dell’uomo che invece richiede un rapporto di esclusività.

E’ lecito chiedersi per quale motivo molti dei film ambientati nel futuro prevedano un avvenire problematico e a tratti catastrofico. La presenza dell’Intelligenza Artificiale non dovrebbe alleviare le vite degli uomini, essendo questa la più importante e utile invenzione umana? Certamente si potrebbe far notare che un film senza antagonista risulta noioso e monotono. Dunque, serve anche per i film ambientati nel futuro identificare un possibile nemico grazie al quale costruire la storia. Ma perché individuare il nemico proprio nell’Intelligenza Artificiale? Perché far sorgere il problema principale della storia proprio dal rapporto uomo-robot? Perché non si riesce a vedere nei computer intelligenti dei validi e fedeli alleati?

I film di questo tipo sembrano ricalcare un archetipo vecchio come la storia del mondo, il modello della Hybris, ovvero della tracotanza, della superbia, dell’eccesso, e la sua conseguente e inevitabile punizione divina. L’uomo si macchia di Hybris quando, spinto da  un’orgogliosa coscienza di sé, sfida l’ordine e i limiti posti dal volere divino.

Prometeo ruba il fuoco agli dei, dipinto di Fuger

Il mondo greco antico è ricco di racconti in cui è ricorrente il topos letterario della tracotanza, primo fra tutti il celebre mito di Prometeo, titano amico dell’umanità e del progresso che sfida gli dei rubando loro il fuoco per donarlo all’uomo, subendo poi l’atroce punizione di Zeus. Il tema può ricorrere anche in ottica cristiana, come manifestato dall’Ulisse dantesco che, mosso dalla sete di conoscenza, convince i compagni a oltrepassare lo stretto di Gibilterra, dove Ercole aveva imposto il limite da non superare. Ulisse si spinge fino all’estremo limite imposto alla natura umana e tenta di superarlo senza la guida divina, motivo per cui Dio stesso lo punisce facendo affondare la nave. O, ancora, il racconto biblico della Torre di Babele è esempio emblematico della sfida che l’uomo lancia a Dio. Gli uomini tentano infatti di costruire una torre altissima, con l’obiettivo di poter toccare finalmente il cielo. La punizione divina non manca nemmeno in questo caso, e crea scompiglio tra le persone che non sono più in grado di parlare la stessa lingua e dunque di capirsi. Esiste anche un Moderno Prometeo, meglio conosciuto come Frankestein, protagonista del celebre romanzo del 1818 scritto dalla giovanissima Mary Shelley.

Il mostro creato dal dottor Frankestein

Il dottor Frankestein è cresciuto coltivando un sogno impossibile a chiunque, fino ad allora: la creazione di un essere umano più intelligente del normale e dotato di ottima salute e una lunga vita. La creatura, figlia del fantastico progetto del dottore, si rivelerà un enorme pericolo per la vita del suo creatore, costretto a scappare dall’abominevole mostro. La creatura sembra dunque essere sfuggita dal controllo del suo creatore. Quest’ultimo ci appare quindi come un Prometeo moderno, che, proprio come quello antico, sfida il limite imposto all’uomo ribellandosi al destino della morte, per impossessarsi del segreto dell’immortalità. E proprio come il Prometeo antico, anche Frankestein incorre in tragiche conseguenze. E’ necessario, però, sottolineare le debite differenze tra i due episodi. Nell’antichità infatti, e anche nell’ottica cristiana, è la divinità a punire l’uomo per la sua tracotanza, mentre nel romanzo di Mary Shelley la “punizione” deriva dalla creatura, ovvero da ciò che rappresentava la conquista per il progetto del dottore.

Possiamo dire quindi che nella Hybris moderna le conseguenze dannose derivano proprio da ciò che l’uomo inventa e crea. In effetti, ritroviamo la stessa dinamica nei film sopra citati, in cui robot intelligenti, figli del progetto dell’I.A., sfuggono al controllo dell’uomo, ribellandosi e rappresentando una minaccia per i loro creatori.

La ricerca scientifica sfida da sempre i limiti imposti dalla natura, ma il progetto dell’Intelligenza Artificiale sembra far fronte al più grosso limite esistente, limite che rende l’uomo una creatura e la Natura la sua creatrice, ovvero la capacità di creare la vita intelligente. Il progresso scientifico in effetti sembra dirci che prima o poi l’uomo sarà in grado di ricreare l’intelligenza, motivo per cui le pellicole cinematografiche si interessano tanto al tema, leggendolo come la sfida tracotante che l’uomo della nostra epoca lancia alla Natura. E’ difficile capire se ci stiamo spingendo troppo oltre ai limiti a noi imposti, e non è chiaro se il futuro distopico annunciato da certi film sia attendibile o frutto solo della paura dell’ignoto. Resta tuttavia valida l’ammonizione nelle parole del Galileo di B.Brecht: “E quando, coll’andar del tempo, avrete scoperto tutto lo scopribile, il vostro progresso non sarà che un progressivo allontanamento dall’umanità. Tra voi e l’umanità può scavarsi un abisso così grande, che ad ogni vostro eureka rischierebbe di rispondere un grido di dolore universale…“.

 

 

Pubblicato in: Articoli vari, Ribqah, Superuovo

Chi controlla i controllori… delle Fake News?

Il seguente articolo è stato pubblicato in data 30 Novembre per il sito de Il Superuovo


Lo scandalo delle Fake News è tra i principali problemi del nostro tempo. Sono già state avanzate diverse proposte per risolvere una questione così delicata e importante. Tra queste, l’idea di affidare a Facebook e i social network l’onere di censurare notizie riportanti contenuti falsi o illeciti.

Esempio di una tipica Fake News in circolazione sulla rete negli ultimi giorni

 

Le Fake Newcostellano la storia dell’uomo fin dalla notte dei tempi. Basti pensare, per esempio, al generale spartano Pausania, eroe delle famose Guerre Persiane, accusato dagli stessi spartani di aver aiutato il nemico Serse tramite un carteggio, rivelandosi come il traditore di quella patria che aveva così valentemente difeso. La lettera, riportata dall’antico storico Tucidide, è stata la causa dell’accusa e per molto tempo ha rappresentato il pericolo della corruzione dalla sete di gloria. Tuttavia, la recente storiografia accusa la mancanza di veridicità nella famosa lettera, sostenendo che questa non sia stato altro che lo strumento per innescare un odio verso Pausania, personaggio divenuto scomodo per gli equilibri politici spartani. Sono esistite false notizie rivelatesi particolarmente determinanti anche nella storia più recente, come quelle che hanno contribuito all’amplificazione dell’irredentismo conosciuta dal secolo scorso, mirata all’entrata nella Grande Guerra.

Nonostante la loro costante presenza nei secoli, lo scandalo delle Fake News sembra aver aumentato notevolmente la sua gravità soprattutto negli ultimi anni. Le notizie riguardanti tale tema, infatti, risultano sempre molto rilevanti. Si potrebbe individuare una causa originaria di tale rilevanza e una causa secondaria, ma pur sempre decisiva. La prima è rintracciabile nel fenomeno dei Social Network, i quali aumentano esponenzialmente la quantità di informazioni diffuse e la velocità con le quali queste circolano. La seconda riguarda il momento politico che il nostro Paese sta vivendo, affacciandosi alle prossime elezioni. Infatti, molti politici negli ultimi mesi si sono rivelati particolarmente sensibili al tema delle Bufale in rete, che, tramite la disinformazione, possono indebolire e destabilizzare la reputazione di alcuni personaggi della scena politica. Dunque, la gravità e la difficile gestione del problema delle false notizie sono aumentate con l’arrivo delle piattaforme di condivisione online, motivo per cui le fake news sono argomento frequente della stampa; inoltre, l’influenza di tale fenomeno nella politica accresce ancora più l’interesse dei mass media.

I principali Social Media del mondo

E’ stata avanzata nei giorni scorsi, dai senatori Zanda e Filippin, una nuova proposta di legge recante “Norme generali in materia di Social Network e per il contrasto della diffusione su internet di contenuti illeciti e delle fake news” ; tale disegno di legge prevede di introdurre una maggiore responsabilità dei social network, chiamati a sviluppare “Sistemi, procedure ed organismi di autoregolamentazione e controllo dei contenuti veicolati dalle proprie piattaforme, capaci di contrastare la pubblicazione di contenuti illeciti e di diminuire sensibilmente l’entità e la diffusione dei danni provocati da tali crimini”. I fornitori dei servizi delle reti sociali avranno così l’onere di sorvegliare e, nel caso, censurare eventuali contenuti non veritieri e illeciti, rispettando i termini prescritti, pena sanzioni che vanno da 50 mila a 5 milioni di euro. L’idea, dunque, è quella di limitare il problema delle bufale intervenendo sullo strumento di diffusione delle notizie false, servendosi di strumenti di autoregolazione. Sicuramente tale strategia ridurrebbe notevolmente la circolazione di contenuti non veritieri, ma gli aspetti illogici e pericolosi della legge proposta appaiono alquanto preoccupanti.

Innanzitutto, lo Stato, affidando il compito ad aziende private quali Facebook, Twitter, Instagram, rinuncia al suo compito principale di attribuire torti e ragioni. Il codice penale, che prevede sanzioni differenti per le varie tipologie di false notizie messe in circolazione (calunnia, diffamazione, notizie tendenziose), sembrerebbe dunque non bastare più. Inoltre, di fronte al rischio di pagare multe così salate, la censura verrebbe applicata sulla maggior parte delle informazioni di pubblico interesse che, come tali, sono destinate a scontentare qualcuno. Circolerebbero dunque notizie neutrali e banali, che non danneggiano nessuno. Ma, soprattutto, se consideriamo che i gestori della rete sono giganti economici con interessi su scala globale e rapporti con i potenti di tutto il mondo, allora non è difficile intuire quanto sia rischioso mettere nelle loro mani la capacità di controllare la circolazione di informazioni sul web, luogo principe per lo scambio di opinione e notizie. Le informazioni non gradite al potere potrebbero essere censurate, nonostante non riportino contenuti falsi, causando così la fine del dissenso e della critica, nemici temuti dal pensiero unico. Il quadro si fa ancor più preoccupante se consideriamo ciò che hanno scoperto agenzie come la CongressEdits negli USA, sistemi con l’obiettivo di scovare le bufale proveniente dai computer dei parlamenti dei vari paesi. Sembra infatti che anonimi abbiamo migliorato il loro profilo sul noto sito di Wikipedia, cancellando o modificando informazioni scomode, quali promesse elettorali non mantenute o affermazioni del passato non coerenti con lo schieramento politico attuale. Appare significativo, dunque, il fatto che la proposta di una legge anti-FakeNews provenga proprio da quegli ambienti in cui avviene una manipolazione delle informazioni.

Nel celebre romanzo di G. Orwell, 1984, il protagonista trentanovenne Winston Smith lavora presso il Ministero della Verità ed è incaricato di correggere libri e articoli di giornale già pubblicati da tempo, rendendo veritiere e riscontrabili le previsioni del Partito. Nel romanzo, dunque, è possibile riscrivere la storia del passato cancellando la memoria degli individui perchè la capacità di controllare e modificare le informazioni è nelle mani del Potere, il quale impone un pensiero unico che diffida del dissenso e dei giudizi critici. Può sembrare esagerato il confronto col romanzo distopico orwelliano; tuttavia è significativo riflettere sulle eventuali conseguenze del controllo delle informazioni concentrato in poche e potenti persone. La cultura delle Fake News giustamente induce una preoccupazione relativa alle conseguenze della circolazione di false notizie, quali la discriminazione o l’odio ingiustificato. Ma la soluzione deve essere pensata agendo sull’educazione al pensiero critico e all’esercitazione della logica, strumenti assolutamente affidabili per l’affronto del mondo dell’informazione in cui siamo immersi.

1984, George Orwell

Tornando al mondo greco, Socrate insegnava proprio questo con la famosa tecnica della maieutica, conducendo i giovani a scoprire la verità insita in ognuno di loro e educandoli ad esercitare la loro ragione. E proprio Socrate è stato ucciso dal potere che lo accusava di corrompere i giovani con false notizie e di far apparire migliore la cosa peggiore; insomma, lo accusava di mettere in giro bufale, fake news. Se il potere è infastidito o minacciato, tenta di porre fine alla circolazione di quelle informazioni utili a minare la sua sicurezza, a prescindere dal fatto che queste siano fake o veritiere. Per farlo, può tentare di liberarsi del singolo che è la causa di tali informazioni, oppure può mirare al controllo delle informazioni stesse. E’ utile tenerne conto quando pensiamo di affidare a pochi il diritto e il dovere di decidere cosa può o non può essere conosciuto. Una volta deciso chi controlla le informazioni, chi controllerà i controllori delle Fake News?